Lo spread è la differenza tra il tasso di interesse che il governo italiano paga sui BTP a 10 anni rispetto a quello pagato dal governo tedesco su titoli con la stessa scadenza. Negli ultimi mesi lo spread è salito fino ad un massimo di 303,4 punti (il 3 %) a fine maggio, da quota 113.6 punti di fine aprile, ed è poi calato intorno a 218 (20 giugno). Dobbiamo preoccuparci? Sì, perché lo Stato italiano, cioè tutti noi, oggi paga un interesse superiore di oltre 2 punti percentuali rispetto alla Germania. Ma da cosa è determinato questa differenza?
Supponiamo che due nostri conoscenti, Tizio e Caio ci chiedano un prestito di 100 euro. Tizio è persona affidabile e siamo sicuri che ci ripagherà. Ci accontentiamo allora di prestargli i soldi allo stesso tasso che prendiamo lasciandoli in banca, diciamo lo 0,5 %. Caio invece ha fama di spendaccione, spende più di quanto guadagna e per comprare casa e auto ha accumulato un debito superiore al suo reddito. Poniamo poi che Caio non abbia rimborsato 1 ogni 5 prestiti contratti in passato: ha dunque il 20 percento di probabilità di essere insolvente. Per compensare questo rischio richiederemo a Caio un interesse del 25,5%. Caio paga dunque uno spread del 25% (2500 punti) rispetto a Tizio. La Grecia, al culmine della crisi, arrivò a pagare uno spread di oltre 1700 punti: lo spread è proporzionale alla probabilità di insolvenza che i prestatori assegnano al debitore, non ci sono complotti.
Poiché il debito pubblico italiano ammonta oggi a circa 2300 miliardi di euro e ha una scadenza media di poco inferiore ai 7 anni, senza contare i nuovi debiti, ogni anno lo Stato deve convincere i risparmiatori a rinnovargli i titoli in scadenza, 328, 6 miliardi (=2300/7). Quindi uno spread di 100 punti (1%) costa al contribuente 3,3 miliardi ogni anno: quindi circa 1/3 delle risorse che il governo oggi si affanna a trovare per evitare l’aumento dell’IVA, le cosiddette “clausole di salvaguardia”.
da METRONEWS 22/6/2018