(Dal Corriere della Sera, 3 febbraio, 2003)La signora Elena Fano, ottantun anni, ha spedito al Corriere della Sera una email, «bisogna tenersi aggiornati»,
sorride. Poche parole: «A proposito del liceo classico Manzoni, ho una fotografia della classe I C dell’ anno scolastico 1937/38 con sei compagne ebree e un’ altra foto della stessa classe nel 1938/39: le ragazze non ci sono più. Erano Marcella Mortara, Emma Mortara, Gigetta Norsa, Matilde Morpurgo, Didi Aliotti, Luisina Levi. Le ricordo». Adesso sta seduta sul divano del salotto, si aggiusta gli occhiali e indica sicura le ragazze sul ripiano del tavolino, una ad una, «la terza da destra è Gigetta, la quarta Matilde, la quinta Marcella, l’ ottava, accanto a me, Emma. Questa sono io, vede?, l’ ultima a sinistra della prima fila. Più su, in terza fila, la quarta ragazza da destra è Didi. Sopra, la seconda da destra è Luisina…». Guardare l’ altra foto è come fissare il vuoto di quei sei banchi nel settembre 1938, si avverte il senso di qualcosa d’ irrevocabile, di non detto. «Sapevamo tutti delle leggi razziali, tra i ragazzi alcuni erano dispiaciuti e si mormorò qualcosa, ma di nascosto. I professori non dissero parola, del resto in apparenza erano tutti fascisti, cosa pensassero dentro non lo so». Il solito appello, le solite lezioni, tutto qui. Perché? La signora Fano scuote piano la testa, «perché, perché…Siamo stati tutti allevati in quel clima fascista, le piccole italiane, le giovani italiane, l’ impero, i discorsi del Duce. È difficile capire per chi non l’ ha vissuto, se qualcuno era contrario lo teneva per sé. È solo dopo che non se ne trovava più uno, di fascista. Erano spariti tutti». Quei giorni le sono tornati in mente grazie alla ricerca dei ragazzi del Manzoni, i nove liceali che per due anni hanno cercato e rintracciato nomi e storie dei 65 studenti «eliminati» dalla scuola nel 1938 perché «di razza ebraica». Tra questi Regina Gani, deportata ad Auschwitz con la famiglia il 24 ottobre ‘ 44, a diciassette anni: morì «dopo l’ 11 febbraio ‘ 45» durante la «marcia della morte», il lavoro dei ragazzi è dedicato a lei. Sul Corriere, ha letto la storia di Annamarcella Falco, che fu cacciata da un’ altra classe, ancora al ginnasio: «Edvige e Cicci erano le mie amiche del cuore, ci si sentiva e scriveva ogni settimana e d’ improvviso nulla, non mi hanno più mandato una lettera né telefonato, sto ancora aspettando che lo facciano». La signora Elena può capire cosa significhi, c’ è mancato poco che fosse la settima desaparecida della sua classe, «in famiglia avevamo paura». Si salvò solo perché figlia di matrimonio misto: «Era una situazione un po’ complicata: mia madre era ebrea, papà era figlio di un ebreo e di una cattolica ed era diventato cattolico». All’ inizio del ‘ 38, capito che le cose si mettevano male, il padre fece battezzare Elena e suo fratello, «nel ‘ 33 avevamo visto gli ebrei tedeschi riparati a Milano, papà intuì il pericolo e fece appena in tempo e rientrare nei termini consentiti dalla legge». Non che la situazione familiare fosse per questo tranquilla, «riuscii finire il liceo e fare due anni d’ università, Lettere, ma nel ‘ 43 scappammo. A settembre eravamo sfollati sul lago di Como, un amico ci disse: avete saputo quello che è successo a Meina, tutti quegli ebrei uccisi dai nazisti e gettati in acqua?». Se ne andarono a piedi per le montagne, i contrabbandieri che facevano strada, fino in Svizzera. Rifugi, notti a dormire sulla paglia, quindi il soggiorno a Lugano e il ritorno a Milano dopo la Liberazione, la laurea, «poi mi sono sposata e da allora ho fatto la mamma». Restano quelle due foto. Ha saputo più nulla di quelle ragazze, signora? «Molti anni più tardi ho rivisto Matilde Morpurgo, lei è rimasta qui a Milano, ci siamo sentite ancora poco tempo fa. Le altre non so, non ricordo se qualcuno chiamò le compagne dopo che furono cacciate, ma è probabile fossero scappate già durante l’ estate, di una ho saputo che fuggì in Sudamerica». Elena Fano sfiora la prima foto, guarda la seconda: «Chissà se ci sono ancora. Ma io le ricordo». Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 3 febbraio, 2003).